Dalla parte del nascituro di Ajò Marta


Se il nascituro avrà la certezza di un vita segnata fino alla sua fine, farlo nascere è una crudeltà, non per la madre o solo per la madre, ma principalmente per lui e per i suoi diritti.

In un momento certo non dei più sereni per l’Italia, si inserisce, con preoccupazione assai motivata, il dibattito sollevato da alcuni settori della stampa, della medicina e della chiesa riguardo l’aborto terapeutico.

La discussione si svolge attorno al numero di settimane al di sotto del quale il feto possa o no abortire. Una discussione che pare svolgersi senza tenere conto delle donne, e in cui le voci femminili sono state poche e flebili.

Eppure un confronto fra le parti, un dibattito sereno sarebbe la premessa necessaria per promuovere la capacità d’accoglienza alla maternità da parte di molte donne, ma anche della società.

Se si riflette sul fatto che la madre è la persona che deve accogliere il nascituro in un clima di serenità per la crescita e l’educazione dello stesso, appare evidente la crudeltà di voler rianimare il feto contro la volontà della stessa, se non sia in grado di garantire quest’attitudine.

Se esiste già la certezza di gravi anomalie del feto, malformazioni congenite e rischi per la crescita, il medico ha il dovere di parlarne con la madre rappresentandole i rischi futuri.

Troppo facile chiedere a una donna se voglia tentare la rianimazione sulla base di scelte emotive ed affettive: quale donna, quale madre potrebbe opporre un rifiuto al proprio concepimento?

Sarebbe invece molto più giusto informarla sul tipo di vita che attende suo figlio, nel caso esso dovesse vivere e convivere in condizioni di imparità sociale e di sofferenza fisica, in un Paese dove le strutture di supporto e di assistenza alla famiglia sono assai precarie quando inesistenti.

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